Campagna elettorale – dov’è l’Europa? (Beatrice Biagini)

La campagna elettorale che stiamo vivendo oggi è molto diversa da quella del 2004. La tensione costruttiva che stava alla base di quella che era stata per molti la campagna per la Nuova Europa (si sarebbe compiuto in quel mandato l’allargamento ai paesi dell’Est) era carica di aspettative, di curiosità verso un insieme di istituzioni che si stavano modificando, di speranze progressiste nei confronti di un’unione che aveva l’ambizione di allargare le sue frontiere e di aprire le sue relazioni prendendosi la responsabilità di giocare un ruolo nel contesto internazionale. Fu una campagna che si univa davvero alla campagna per le amministrative. I candidati sindaci ne approfittavano per “lanciare” i loro programmi nella dimensione europea; i progetti europei, la possibilità di mettere in rete le regioni d’Europa, le opportunità del Fondo Sociale venivano presentati come un modo nuovo di gestire il governo locale, di amministrare in modo moderno e innovativo i territori riconosciuti e valorizzati dalla dimensione comunitaria. “Uniti nella diversità”, appunto. L’identità diventava un valore e smetteva di essere un’arma se messa in relazione con le altre mille identità europee.

Dopo i conflitti difficili in cui l’Europa a stento era riuscita a mantenere una posizione il 2004 doveva essere l’anno di un parlamento nuovo più rappresentativo delle comunità, di una nuova commissione rinforzata dai trattati che si andavano preparando e di un nuovo consiglio dei ministri europei, tutte istituzioni delegate progressivamente a prendere un numero di decisioni sempre più importante rispetto ai parlamenti nazionali. Alcuni governi locali, nelle zone di centrosinistra, ma non soltanto, erano riuscite a vedere nella dimensione comunitaria una possibile alternativa alla riduzione dei trasferimenti (cominciavano gli anni del Patto di stabilità, le finanziarie del governo di centrodestra mettevano i comuni in ginocchio, la semplificazione della spesa ingaggiava una corsa al taglio senza criterio, vanificando progetti e sforzi per servizi migliori. Gelmini, Brunetta, Tremonti, qualche anno dopo avrebbero fatto il resto). Restava una grande ignoranza nella funzione pubblica territoriale quanto statale sulle regole, i metodi, i manuali per la progettazione europea. Un deficit mai seriamente colmato, nonostante le tante iniziative universitarie, private o pubbliche dedicate alla “tecnica per fare i progetti europei”. Chi ha lavorato nella pubblica amministrazione sa bene quanta poca familiarità si abbia con le direttive, i bandi o i formulari europei. Per non dire degli eletti e degli amministratori che in questo campo non hanno mai seriamente preso in considerazione la possibilità di “formarsi” prima di candidarsi. Detto questo qualche dirigente dinamico che si faceva inviare a Bruxelles di tanto in tanto c’era: riusciva a preparare una rete di partner, riempire i fogli excel con i dati giusti, presentare in inglese un progetto ben costruito e avere quindi l’opportunità di toccare con mano le virtù e le potenzialità dell’Europa Unita. Nel 2004 l’euro era in circolazione da due anni, aveva salvato l’Italia e altri stati membri dalla caduta economica e dalle monete nazionali. Molti territori avevano beneficiato dei fondi strutturali grazie al lavoro delle regioni e fisicamente si cominciava a capire il vantaggio dell’Europa. Anche a livello nazionale, ma a livello locale forse queste logiche hanno saputo radicarsi in una gestione della cosa pubblica che ha approfittato, o almeno ha tentato di farlo, dell’opportunità “Europa”. Palermo ha ricostruito lo Spasimo. La Val di Cornia si è dotata di un parco naturale. Il Salento ha valorizzato la sua memoria. Ustica ha visto nascere cooperative giovani per la gestione dei servizi turistici e culturali. Insomma un embrione di sviluppo che si apriva una strada grazie a competenze e ambizioni nuove, alimentate dall’aria europea. Un caso interessante è stato, tra tanti, quello di Fiesole, un comune della provincia di Firenze. Fiesole. In Toscana, 15.000 abitanti all’epoca (oggi poco più di 14.000 ma il tasso delle nascita è aumentato nell’ultimo anno: 10 anni fa le comunità straniere più numerose erano quella americana e filippina, oggi albanese e rumena). Nel 1997, grazie a un progetto europeo, i cittadini di Fiesole sperimentano con un anticipo di 4 anni l’euro. Monete coniate per l’occasione dalla Repubblica Italiana, un partenariato con la Francia, uno scambio di pratiche nel nome del proto euro. Un progetto europeo compiuto, con un occhio alla valorizzazione del territorio, il marketing dei prodotti locali, la dimensione culturale. Un esempio come tanti di come nasceva la sensibilità nel governo dei territori verso l’Europa. Poi è arrivata la Commissione Barroso, le direttive sui servizi pubblici, sulle delocalizzazioni e in un paese fondamentale nel processo di costruzione europea si è votato no al referendum sul Trattato costituzionale. Nel 2005 il no della Francia (insieme al no dell’Irlanda) contribuisce a irrigidire le relazioni: gli stati membri non sono convinti di cedere sovranità, ancora una volta preferiscono la lobby nazionale alla condivisione, la logica del negoziato unilaterale (UE-paese) a una logica trasversale. In più l’allargamento complica il contesto. Arrivano i nuovi paesi percepiti come a caccia di risorse comuni (senza contare che vi contribuiscono), i vecchi membri tentano di presentarsi come partners responsabili, in realtà cercano di recuperare fondi dedicati a progetti di integrazione. Alcuni funzionari della commissione riportano che Prodi sia stato il presidente più criticato per la sua ostinazione nello spingere l’acceleratore dell’allargamento. Molti politici di centrodestra hanno utilizzato argomenti simili per spiegare al loro elettorato le difficoltà interne. Dimenticando che allargare l’Europa è stato innanzitutto diffondere diritti, e cosi continuerebbe ad essere se non si fosse fermato, per ora, il meccanismo. Yves Meny, già presidente dell’Istituto Universitario di Fiesole (che detiene il più importante archivio storico d’Europa, l’Archivio Spinelli), spiegava il processo europeo con la metafora di un meccanismo a ruote dentellate: lentissimo e tuttavia irreversibile, ogni scatto permette solo di avanzare. L’Europa dovrebbe poter solo avanzare. Tuttavia le istituzioni europee non godono di grande popolarità, i parlamentari europei non sono conosciuti, a livello nazionale le decisioni europee continuano ad essere vissute come momenti di possibile intralcio alla tranquilla realizzazione dei programmi nazionali. O come obbligo cui far rimontare le scelte più impopolari e difficili. L’Europa di Barroso non prende posizione sui conflitti internazionali, subisce la crisi economica più recente ma anche quelle precedenti, assiste incredula alla vittoria di Obama. E il clima negli stati nazionali si raffredda. Lo spirito del 2004 non c’è in Italia. E non c’è in Francia. I sondaggi continuano a mortificare le elezioni europee nel solo ruolo che sembrano ormai aver assunto per le classi politiche nazionali: una conta interna. In Italia non c’è un candidato sindaco che parli di Europa, che lanci il suo programma di città nella dimensione europea o internazionale, se non in riferimento al turismo (“l’Italia detiene il 70% del patrimonio culturale mondiale” quante volte abbiamo sentito questa frase assurda e inverosimile?). Il rapporto amministrazione locale/Europa sembra essersi interrotto. Le liste per le europee sono state fatte sulla base degli equilibri interni, senza attenzione alle competenze, alla preparazione dei candidati, all’esigenza di riqualificare l’immagine della delegazione italiana a Bruxelles che è tra le più imbarazzanti con un tasso di partecipazione alle sedute ridicolo. I leaders dei partiti si sono candidati ovunque, non considerando le leggi sull’incompatibilità; l’unico partito che ha rispettato almeno questo vincolo e si è dato un minimo di criterio è stato il Partito Democratico. Salvo poi riutilizzare in alcuni casi le europee come soluzione privata per qualche dirigente o ex amministratore a fine corsa. La legge elettorale per le europee in Italia è una delle peggiori in assoluto, con l’obbligo delle preferenze che uccide e distrugge ogni strategia costruttiva in direzione dell’Europa per alimentare l’accanimento di candidati fratelli uno contro l’altro. Le eccezioni non mancano per fortuna e speriamo che ci riservino delle sorprese: candidati giovani, imprevisti, imposti nel PD da un fiume sotterraneo che cerca di farsi un varco nel tappo della dirigenza. I loro programmi parlano inglese, si presentano su youtube, riempiono le sale e raccolgono fondi con paypal. Troppo moderno? Vedremo. In Francia il PS soffre degli effetti del congresso: le correnti non si sono pacificate e continuano a vivere nelle liste bloccate (liste che evitano, certo, la gara fra candidati dello stesso partito ma che sono state formate per regolare i conti interni: un segolenista, uno di Strauss Kahn, uno di Hamon…). La campagna vive sul no a Sarkozy e molto poco sulle proposte del PS. Il Manifesto del PSE chiede di cambiare l’Europa. Ma l’Europa stessa è messa in discussione a volte. In tutto questo i governi parlano di altro. Del ruolo dell’Europa nessuno parla. Di cosa vogliamo che sia: una federazione, un’unione, una Repubblica (come suggerisce Collignon1 in un libro che tutti i cittadini comunitari e non dovrebbero leggere per capire la straordinaria occasione che abbiamo e che rischiamo di perdere). E di come vogliamo che agisca. I governi eludono domande fin troppo urgenti: Vogliamo un Presidente della Commissione europea eletto direttamente dai cittadini europei? Vogliamo un referendum per votare nei 27 paesi, nello stesso giorno, sulle nuove adesioni, come la Turchia? Vogliamo che l’Europa sia più forte grazie alla cessione delle sovranità nazionali? Vogliamo utilizzare un’imposta per finanziare l’aumento degli Erasmus e la loro attivazione in altri campi (dalla pubblica amministrazione, al corpo insegnante, alle professioni) ? Vogliamo aumentare il budget europeo all’1,5% del PIL dei 27 paesi? E poi ci sono i temi della cittadinanza europea. Molti iscritti al PD in Europa ( a Parigi, a Londra, a Berlino) hanno cercato di trasmettere alla direzione del partito la necessità di andare in Europa con idee chiare su temi quali la mobilità, l’immigrazione, i diritti civili, il mercato e i servizi sociali. Molti iscritti in Italia e alcuni candidati sentono il bisogno di allargare il campo: l’Europa adesso non è più solo una straordinaria opportunità, è l’orizzonte dentro il quale uscire dalla crisi economica, è la dimensione nella quale gestire i flussi migratori, è il contesto in cui regolare la concorrenza fiscale tra i paesi o per sperimentare e rinforzare nuovi settori di cooperazione. Qui di seguito un piccolo esempio di cosa vorremmo venisse discusso, è un primo contributo che i circoli del PD in Europa hanno inviato alla segreteria nazionale e sul quale impostare un confronto e un progetto più ambizioso e meno locale possibile. Anche dopo il 7 giugno ovviamente. 1. Mobilità e diritti. Portabilità e integrazione dei diritti pensionistici, infortunistici, disoccupazione (esistono già forme di trasferibilità in materia di sussidi di disoccupazione, che possono diventare un primo termine a partire dal quale estendere la portabilità dei diritti ad altri campi) e di maternità2. Creazione di un criterio di proporzionalità inversa fra pressione fiscale e durata del contratto. Lotta alle collaborazioni mascherate da contratti esterni. Estensione dei diritti previdenziali ad ogni forma contrattuale tramite un sistema di flexicurity. Creazione di criteri che permettano di stabilire progressivamente un salario minimo europeo, seppur modulato in funzione del costo della vita delle diverse nazioni.

2. Immigrazione e cittadinanza. Immigrazione: priorità alla lotta alle mafie internazionali dell’immigrazione; obbligo per gli Stati di stabilire un percorso chiaro e univoco al termine del quale il cittadino immigrato possa, se lo desidera, ottenere la cittadinanza. Vorremmo in particolare che i parlamentari eletti nelle liste del PD promuovessero un’azione politica per la riforma della cosiddetta Direttiva Rimpatri, le cui disposizioni sono in palese contrasto con i principi di libertà, eguaglianza e rispetto dei diritti dell’uomo, principi sul cui rispetto si fonda l’Unione Europea (Art.6 TEU). Cittadinanza: pieni diritti elettorali per ogni cittadino europeo che viva in uno stato diverso dal proprio stato di origine; il diritto può essere esercitato tramite un sistema di opzione.

3. Europa e diritti civili: Rilancio e approvazione della Direttiva contro tutte le forme di discriminazione presentata dalla Commissione europea lo scorso 2 luglio.  Sostegno alle proposte di includere una nozione di discriminazione multipla, fondata sulla combinazione di più fattori di rischio, e di discriminazione per associazione. Sostegno alla inclusione  alle molestie sessuali nonché all’applicabilità della Direttiva alle unioni civili e di fatto, rimozione di ogni forma di discriminazione nei confronti della comunità Glbt, rimozione di ogni discriminazione nei confronti della libertà della donna, rimozione di ogni ostacolo allo sviluppo della ricerca scientifica in campo medico.

4. Mercato e diritti sociali. Il nuovo Parlamento Europeo si troverà presto a decidere su importanti provvedimenti legislativi quali la direttiva sull’assistenza sanitaria in Europa e la libera circolazione dei pazienti, sulla questione dei fondi di assicurazione obbligatori e la loro compatibilità con il mercato comune, con i progetti di riforma della direttiva sul distacco dei lavoratori.  Occorrono posizioni chiare che garantiscano la mobilità e l’apertura al mercato anche in questi settori, non secondo una serie di parametri vincolanti stabiliti dai singoli stati, ma piuttosto secondo criteri comuni quali: interoperabilità, accessibilità universale, accessibilità di costo, rispetto dei principi di solidarietà.

Come detto si tratta di un contributo sul quale discutere ancora. Anche dopo il 7 giugno, appunto.

Beatrice Biagini

Segretario PD Parigi

Parigi, 26 maggio 2009

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