Padano Libero

Padano Libero

La pagina web personale dell’attuale Assessore al territorio nella giunta Lombarda offre uno spunto per alcuni riflessioni.
Si tratta delle pagine di Daniele Belotti (detto ol Belot) ed in particolare quella in cui vengono riportate le parole da usarsi per fare lo spelling di una parola in padano e bergamasco « Paroline per fas capi ». E come Empoli, N come Napoli, R come Roma sono naturalmente vietate. Tutto deve fare riferimento alla Padania oppure a qualcosa di esotico che faccia comunque riferimento a qualcosa di nordico. H come Hockey (su ghiaccio ovviamente in quanto sport nordico).

Potremmo anche sorridere, tuttavia quello che fa più rabbia di quest’uso del padano è il tentativo di farne un passaggio da lingua franca a lingua identitaria.

Oggi il padano è usato dalla Lega – e non solo – come strumento di difesa di una presunta identità, della quale si inventano retrospettivamente le radici, si costruiscono i muri e i confini, tanto materiali quanto linguistici. Il che contribuisce a generare  inquietanti paradigmi di esclusione fondati sull’impossibilità, per chi arriva nell’Italia del Nord, di essere partecipe di una “identità” (questa è la nostra lingua, la lingua dei nostri avi, per quanto tu ti sforzi sarai sempre un foresto, uno che la lingua non la ha “nel sangue” da generazioni). Fissare l’identità del padano, scolpirla nella pietra, immobilizzarla, scovarne e spesso inventarne retrospettivalente le radici è un atto inquietante di esclusione, un modo di definire a chi appartiene un dato terriorio, un modo di definire chi detta legge, e chi invece deve adattarsi o andarsene.
Eppure il padano, quaranta anni fa, fu oggetto di una invenzione/scoperta da parte di Dario Fo, che lo indicò come lingua franca, in costante metamorfosi, che consentiva ai giullari di passare di corte in corte, dove si parlavano dialetti diversi, facendosi capire ovunque pur senza padroneggiare i diversi idiomi locali. Insomma non lingua identitaria, ma lingua trasversale, “migrante”, e instabile. Ed a partire da ciò fu usato da Dario Fo stesso come lingua della metamorfosi, in cui il mito delle identità – soprattutto quelle di classe – veniva beffeggiato, riarticolato, stravolto, producendo nuovi effetti tanto politici quanto generatori di senso. Lingua non già dell’identità del popolo, ma lingua invece della capacità di chiunque di sovvertire la lingua ufficiale (in quel caso l’italiano), i suoi codici, le sue divisioni culturali e sociali (chi parla l’italiano colto e chi no, chi ha diritto di parlare e chi no, chi “sa” e può decidere e chi è ignorante e deve obbedire) Lingua dell’invenzione di una “comunità a venire”, in cui tanto la lingua che la comunità erano concepite come, appunto, sempre “a venire”, ossia da ripensare e  da problematizzare costantemente.

Non ci è inviso il padano, ma la sua identitarizzazione, il suo farne un monumento di plastica, e non uno strumento vivo di sovversione interna dei nostri stessi modi di pensare.

In fondo ci verrebbe da dire, utilizzando una parola Monzese, che ol Belot è un Billot(*) e che le sue pagine sono tutte delle bilottate.

E dire questo, è il primo passo per tornare a liberare il padano.

Bruno e Luca

(*) Termine derivato dal cognome del generale Francese Billot stanziato in quel di Monza all’epoca della dominazione Napoleonica. Essere un Billot è sinomimo di essere stupido e bilottata è sinonimo di « cavolata ».

3 pensieri su “Padano Libero

  1. Direi che il progetto del “padano” non ha grandi speranze. Ci sono alcune opzioni:
    1. decretare che il Bergamasco (per esempio) sia il Padano. A questo punto gli scrittori, i giornalisti e i sindaci del nordest dovrebbero andare a lavare i panni in Adda.
    2. creare un Espadano, mashup dei vari dialetti nordici. Ma farà la fine dell’esperanto.
    3. Lasciare liberi tutti: dato che persino il Monzese è diverso dal Milanese, e ci si capisce a malapena, si finisce per utilizzare l’italiano come lingua franca.

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  2. Caro Roberto
    il padano di Fo, così come lo intendo, non è stato un progetto linguistico, ma un atto politico, effettuato attraverso la lingua. Un po’ come il friulano per Pasolini (e stiamo parlando di un fine conoscitore dell’Italiano).
    Non c’è un “progetto padano” da difendere. Si tratta solo di ricordare che, di per sè, non è fonte del male contro il “buon” italiano. Il padano di Fo, è stato, come dici, una sorta di Espadano. La differenza, rispetto all’Esperanto, è che non è stato usato solo come lingua franca, ma come lingua affrancante.
    Insomma, diversamente dall’Esperanto, non si dava regole, ma operava nell’infrangerle.
    Quindi, come dici, liberi tutti. Non mi sento di difendere l’Italiano più di quanto non mi sento di difendere il padano (o il milanese o il monzese): entrambi in un tempo più o meno lontano spariranno, a favore non per forza di una omologazione linguistica, ma, si spera, di lingue a venire, di idiomi – e pensieri – che ancora non conosciamo che ancora non sono. Per questo mi interesso a quegli esperimenti (come il padano di Fo) che, per amore della lingua, ti portano a parlare, per dirla con un filosofo francese “comme un étranger dans ta propre langue”.

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