Qualche riga su energia e Copenhagen, visto che il tema è di grande attualità (e visto che sono a Copenhagen…).
Se volete seguire l’evoluzione dei negoziati, consiglio http://en.cop15.dk/.
Per capire la bozza di trattato stilata dai danesi (e rifiutata – purtroppo – dal G77), potete far riferimento a questo articolo del Guardian: http://www.guardian.co.uk/environment/2009/dec/08/copenhagen-climate-summit-disarray-danish-text. Vi consiglio caldamente anche la lettura del testo originale, disponibile qui: http://88.80.16.63/leak/23831690-091127copenhagen.pdf. Si parla di riduzioni delle emissioni dell’80% per i paesi sviluppati, comprese Italia e Francia. Non è poco (anzi: è moltissimo), come potrete intuire.
Un tale obiettivo avrebbe delle ricadute notevolissime sul piano della struttura economica dei paesi occidentali, specie se non esiste una strategia per affrontare il problema e se il tema è rimasto nel dimenticatoio per decenni (come nel caso dell’Italia), mentre il resto del mondo sviluppato si svegliava prima (come, per esempio, nel caso della Danimarca).
La ragione dell’80% è dovuta alla necessità di dimezzare le emissioni di gas serra da qui al 2050 su scala globale per far sì che la concentrazione di CO2 resti sotto le 450 ppm (parti per milione), come indicato dall’ultimo rapporto dell’IPCC (gli scienziati, per intenderci). Le 450 ppm corrispondono ad un aumento medio della temperatura globale di circa due gradi (il target annunciato già nel Protocollo di Kyoto).
[Per aggiungere sale alla questione, vi faccio anche notare che la possibilità di arrivare a limitare la concentrazione di CO2 sotto le 450 ppm è stata messa in discussione in un interessante articolo di Carlo Carraro ed Emanuele Massetti apparso di recente su LaVoce.info.]
La ragione dell’aumento di due gradi è da associarsi alle colossali conseguenze stimate in caso di un aumento maggiore. Per darvi un’idea, lo scioglimento dei ghiacciai di catene montuose come le Alpi o l’Himalaya – compatibile com aumenti medi di temperatura maggiori – rischia di risultare, secondo l’IPCC, in profondi cambiamenti dell’assetto idrogeologico (e potenzialmente di fronte a mancanza d’acqua) di intere regioni del mondo, comprese Europa ed Asia (la portata della conseguenze deve considerare il ruolo dei grandi fiumi asiatici – come l’Indo, il Gange, il Fiume Giallo, il Fiume Rosso, ed il Mekong, ad esempio – per l’approvvigionamento d’acqua nel continente, alla luce del ruolo dell’acqua nell’agricoltura, e va pesato sulla base dell’immensa popolazione che vive sulle loro rive). Maggiori informazione, assai più precise e dettagliate di quello di cui ho sentito parlare io, sono contenute nel rapporto dell’IPCC linkato qualche giorno fa in risposta a Roberto Casati.
L’altra faccia della medaglia, assai poco citata nei circoli ufficiali – è l’incertezza legata alla portata di una riduzione delle emissioni del 50% su scala globale. La realtà è che le trasformazioni in gioco a livello economico (si pensi alla necessità di stoccare immense quantità di CO2 – prodotte da centrali elettriche a carbone, per esempio – sotto terra, o alla necessità di aumentare notevolmente il contriuto delle rinnovabili alla generazione elettrica, o anche al nucleare, oppure alla transizione verso un sistema dei trasporti basato di veicoli più leggeri ed elettrici) potrebbero avere effetti assai profondi nel contesto industriale. Non ho mai letto nulla in merito alla questione dal punto di vista sociale, ma sono convinto che la trasformazione in gioco rischi di dover essere così rapida e radicale da portare a grandi conflitti laddove non ci si è preparati per tempo ad una transizione (ovvero in molte delle economie occidentali, compresa ovviamente l’Italia.).
Non solo: l’impatto di una decisione di questo genere (se decisione di questo genere ci dovesse essere, alla fine del negoziato), ancorché sensato per evitare il peggio, può avere effetti non trascurabili sulla ripresa e sullo sviluppo economico in generale, specie se si considera la quantità di investimenti richiesta per un simile cambiamento ed il rischio di un aumento del prezzo dell’energia sullo sviluppo economico (aumento sicuro se l’economia tornerà a crescere – ed aumento che, come è successo per esempio negli anni settanta o – forse e probabilmente solo in parte – dopo il picco del petrolio del 2008, rischia di rallentarla di nuovo).
Un ultimo fattore importante è la disponibilità di materie prime e fonti energetiche convenzionali (come il petrolio). Laddove non si facesse nulla, il rischio è quello di andare comunque incontro ad un aumento dei prezzi del petrolio (e – più in generale – dell’energia) legato alla concentrazione del petrolio rimasto nelle mani dell’OPEC e dal rafforzamento della sua posizione di quasi monopolio, se non ad una limitazione delle opportunità di approvvigionamento legate alla quantità finita di risorse ed all’aumento di tempi ed investimenti necessari a rimpiazzare i giacimenti che si stanno esaurendo.
Meglio forse darsi da fare per avviarsi su un cammino virtuoso anziché continuare a far finta di nulla?
A voi il responso…
Pierpaolo